domenica 21 luglio 2013

Il St Mary's Hospital e l'epidemia di Ebola

Si sente parlare spesso di mal d'Africa, e forse ne sono affetto anche io, ma di preciso non so cosa sia e soprattutto non so se i sintomi siano gli stessi per tutti.

Era da poco iniziata l'epidemia di AIDS ed eravamo ancora al centro dell'attenzione mondiale per i nostri studi sul Sarcoma di Kaposi (KS) e per i Congressi organizzati  a Napoli nel Giugno del 1983 ed  a Sorrento del 1986, quando ci rendemmo conto che forse l'epidemia non era direttamente legata all'agente eziologico del KS, ma anche essa aveva un link con l'Africa. In Europa i primi casi di KS non erano di omosessuali caucasici, ma di emigrati Africani, come evidente nel convegno "International Symposium on African AIDS", organizzato a Brussels nel 1985 da Nathan Clumeck. Quello fu la scintilla per andare a verificare la prevalenza di AIDS in Africa e se i KS da noi studiati in Uganda fossero associati o meno all'HIV/AIDS1. E così fu dato inizio alla serie di congressi sull'HIV in Africa di cui il primo a Napoli nel 1987 dal titolo "AIDS and Associated Cancers in Africa: Second International Symposium", il successivo a Kinshasa Tanzania (1988) e poi Marsiglia Francia (1989) e così prese inizio ICASA, la prima grande serie di congressi su HIV e Neoplasie-associate in Africa. Nel contempo si costituiva una task-force italiana di intervento per l'Uganda con la convergenza della Direzione Generale per lo sviluppo e la Cooperazione del Ministero degli Esteri (con Guido Bertolaso e Vincenzo Racalbuto), dell'Istituto Superiore di Sanità - ISS (con Donato Greco), dell'ICSC  the ICSC-World Lab, Lausanne, Switzerland (Project MCD-2/7).(Prof. A. Zichichi) sui progetti proposti dal nostro gruppo2 . Nell'ambito di quella attività fu costituito l’East Africa AIDS Research Center presso l’Uganda Virus Research Institute di Entebbe-Uganda. Ma una parte del progetto ci fu chiesto di svilupparlo presso l’Ospedale Missionario Italiano del Saint Mary's Hospital a Lacor. Ed alla fine degli anni ’80 arrivammo al Lacor. Un ospedale di altissimo livello nel Nord dell’Uganda, ai confini con il Sudan/Darfour, e prossimo al Congo/Zaire. Lì nei primi anni ’90 conducemmo uno studio di caratterizzazione biomolecolare con sequenziamento nucleotidico ed analisi filogenetica dell’HIV e riuscimmo addirittura a dimostrare che la clade in evoluzione era quella A mentre la D (ritenuta in fase evolutiva) rappresentava la forma ancestrale in estinzione2.

In quel periodo potemmo incontrare i Corti (Piero e Lucille Teasdale) e diventare amici di Matthew Lukwiya, e con il supporto della comunità scientifica Ugandese il progetto Vaccinale anti-HIV da noi in corso di messa a punto fu incluso nel piano nazionale di lotta all’AIDS (IAVI report Oct-Nov 2002 page 11).

L’incontro con la realtà di Gulu fu scioccante ed illuminante allo stesso tempo. Una situazione molto difficile dal punto di vista sociale e sanitario, retta da persone con una motivazione, una determinazione, un altruismo mai incontrato fino ad allora. Il primo incontro/scontro con Matthew fu una esperienza unica: noi avevamo avuto un progetto (finanziato dal Ministero degli Esteri e dal Ministero della Sanità) per valutare prevalenza ed incidenza dell’HIV in quella regione e lui parlava di strade, di biciclette. Pensai dapprima di avere a che fare con un imbroglione, che voleva solo usare i nostri preziosi soldi della Cooperazione per chissà quale malaffare. E quella sera finì male: nessuno dei due voleva cedere. Io volevo solo usare i soldi del nostro progetto fino all’ultimo centesimo per i nostri campioni. Poi qualche sera dopo andai nel suo appartamento, che era al piano di sotto della guest house di Lacor. Noi ospiti temporanei abitavamo al piano di sopra, loro al piano di sotto. Noi avevamo un bagno ed una doccia comune per tutti gli ospiti. Loro non avevano il bagno in casa. Piero Corti non voleva stravolgere del tutto le loro abitudini. Il bagno era fuori nel cortile e comune. Così anche per gli alloggi degli infermieri.

Piero, Lucille e Matthew
L’appartamento era piccolo, ma pulito e confortevole. Soprattutto vivo per i bambini di Matthew che garruli ci correvano attorno. Oltre ai colleghi acholi (la tribù africana di quella regione) c’erano alcuni italiani. Giorgio, un urologo di Firenze, mi raccontò le plastiche vescicali che faceva. La tribù era sparsa su un ampio territorio, con poche via di comunicazione. La maggior parte delle donne partorivano nella savana. Ma la presenza di problemi (una presentazione podalica o una posizione trasversale del feto) poteva rappresentare la morte di entrambi: madre e figlio. Anche la presentazione cefalica poteva presentare dei problemi in presenza di rapporti estrinseci materno-fetali anomali, con i diametri cranici del feto non compatibili (superiori) a quelli materni. Non era infrequente vedere neonati con l’impronta della canna della bicicletta sulle ossa craniche perché la madre in fase di dilatazione avanzata aveva viaggiato per ore sulla canna della bicicletta che il marito pedalava. Ma la complicanza peggiore era un impegno prolungato della testa fetale nel canale del parto con una necrosi di utero e vescica (compresse contro l’osso del pube) e perforazione/fistola utero-vescicale e perdita continue di urine. Queste giovani donne, diventavano in breve le reiette delle loro comunità per l’odore putrido che emanavano. E Giorgio era uno dei pochi che sapeva ancora fare ricostruzione della vescica ed aveva deciso di farlo lì invece che in qualche clinica privata europea.

Qualche giorno dopo parlai con Matthew di strade sterrate e di ……..  due biciclette.

Diventai grande amico di Matthew, un acholi laureato a Kampala in Medicine e con master in epidemiologia conseguito a Toronto, che ricambiava affettuosamente la mia stima. Matthew rimarrà in modo indelebile nei miei ricordi, come collega ed ancor più come uomo che ha affrontato la vita con tenacia e con determinazione, ma soprattutto ha affrontato la morte con dignità al posto di comando …..  in piena epidemia di Ebola all’Ospedale di Gulu nel 2000. L’ultimo a morire di Ebola dopo averla diagnosticata ed averne implementato le procedure per la corretta gestione sanitaria.

Molti scolari, in passato, si sono entusiasmati (come me) sui banchi di scuola alle gesta di Leonida e dei suoi trecento opliti spartani alle Termopili che bloccando l’invasione dei Persiani di Serse avevano salvato Atene, ma quei racconti lontani nel tempo evocano storie mitiche forse anche un po’ manipolate. La storia di Matthew, invece, è una cronaca dei nostri giorni, una storia ed un esempio di dedizione difficile da dimenticare ed ancor più difficile da emulare ….."What would happen if Ebola, a deadly and highly contagious virus, left the remote heart of Africa?”  http://www.bbc.co.uk/radio4/science/ebola.shtml.

1.      Levy JA, Pan LZ, Beth-Giraldo E, Kaminsky LS, Henle G, Henle W, Giraldo G. Absence of antibodies to the human immunodeficiency virus in sera from Africa prior to 1975. Proc Natl Acad Sci U S A. Oct;83(20):7935-7, (1986 )
2.      Buonaguro L, Del Guadio E, Monaco M, Greco D, Corti P, Beth-Giraldo E,Buonaguro FM, Giraldo G. Heteroduplex mobility assay and phylogenetic analysis of V3 region sequences of human immunodeficiency virus type 1 isolates from Gulu, northern Uganda. The Italian-Ugandan Cooperation AIDS Program. J Virol. 69(12):7971-81 (1995)


Materiale bibliografico e links:
  1. Giraldo's Karger's Books;
  2. Giraldo's NLM Books
  3. Karger's Series Book
  4. ICASA History 
  5. ICASA Report 2005
  6. Un Comboniano in Uganda: Frate Elio Croce
  7. Un documento youtube su: Attività al Lacor Hospital di Gulu
  8. The Erice_AIDS statemen WFS 1999